martedì 2 settembre 2014

Geoingegneria, un piano B per il cambiamento climatico?


Articolo da LInfAlab

L’articolo che state per leggere tratta di questioni poco note e ancor meno dibattute sui media italiani, ma ampiamente trattate dagli organi di informazione esteri e nella letteratura scientifica. Ci proponiamo di fornire al lettore le informazioni generali su alcune tecniche usate per modificare il clima che vanno sotto il termine ombrello “geoingegneria” e che mirano a controllare la terra nei suoi assetti fisici (atmosfera, ionosfera, biosfera, oceano, etc.). Nell’ultimo rapporto dell’IPCC la geoigegneria è stata invocata come soluzione al cambiamento climatico, proposta che solleva alcuni quesiti di carattere sociale.

Il male minore

«È come se stessimo guidando verso un precipizio. La cosa più sensata sarebbe invertire la marcia e scegliere un’altra meta. Il consiglio della geoingegneria è invece quello di spingere il piede sull’acceleratore»

Con questa semplice metafora, Vandana Shiva critica quello che è stato definito il piano B dagli autori dei rapporti IPCC. Nel dossier presentato a Berlino lo scorso 12 aprile, si parla infatti di geoingegneria come di un “male minore” rispetto a un totale immobilismo (paragrafo 3.3.7).

La soluzione più ovvia al cambiamento climatico, in un’ottica ecologista, sarebbe quella di agire sulle sue cause, ovvero le attività produttive più impattanti, al fine di ridurre la CO2 emessa in atmosfera. E questo potrebbe significare, ad esempio, riformare il sistema dei trasporti e quello industriale (produzione energetica e di manufatti, zootecnia, agroindustria, etc.). Tuttavia, questa visione si scontra con l’interesse delle multinazionali le quali considerano lo sviluppo in termini di mera crescita economica, e che perciò considerano la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana come spese superflue. È in questa prospettiva che il protocollo di Kyoto è stato aggirato e le istanze ambientaliste sono di fatto diventate nient’altro che un mercato delle emissioni: i paesi più industrializzati possono acquistare le quote di CO2 assegnate ai paesi in via di sviluppo per evitare di affrontare la questione della riduzione di carbonio seriamente. Nello stesso ordine di idee si muove anche l’IPCC quando guarda alla geoingegneria come rimedio “pronto-uso” per mitigare il cambiamento climatico. Tra le soluzioni proposte compaiono tecniche per il sequestro della CO2 (Carbon Dioxide Removal) e il controllo delle radiazioni solari (Solar Radiation Management). Il panel di esperti dovrebbe avere come scopo ultimo quello di fornire informazioni limitandosi a vagliare tutte le alternative possibili per raggiungere gli obiettivi. Tuttavia, quando un organismo tanto influente include e giustifica soluzioni come quelle della geoingegneria, non sorgono solo sospetti, ma vere e proprie preoccupazioni. Lo ha segnalato anche il Guardian, sottolineando che

«l’aggiunta della parola “geoingegneria” nell’ultimo paragrafo del più importante report sul cambiamento climatico degli ultimi sei anni è una grande sorpresa»

La cosa ha preoccupato anche l’ETC (Group on Erosion, Technology and Concentration), che ha pubblicamente espresso il suo disaccordo, inviando al capo dell’IPCC, Dr. Pachauri, una lettera sottoscritta da 167 organizzazioni. Secondo i firmatari la probabilità che la geoingegneria rappresenti una soluzione sicura, duratura, democratica e pacifica è pari a zero.

Il sequestro del carbonio e l’inseminazione delle nuvole

Con il sequestro della CO2 si opera la cattura del carbonio subito prima o poco dopo la combustione (così come avviene nella centrale Enel di Brindisi). Il passaggio successivo è il trasporto e lo stoccaggio in vecchi giacimenti petroliferi esauriti o in formazioni porose e permeabili saturate con acqua salata. Un processo, quest’ultimo, che presenta rischi tangibili come il rilascio imprevisto di massicci quantitativi di carbonio in seguito a terremoti o a modificazioni delle strutture di contenimento, oppure una continua e silente fuoriuscita in atmosfera. Ma non solo: la CO2 catturata può essere utilizzata per mandare in pressione giacimenti petroliferi in via di esaurimento, facilitando il recupero di quantità di greggio altrimenti impossibili da estrarre. È chiaro che in questo modo non solo non si riducono realmente le emissioni, ma si continua a disperdere CO2 per poi cercare di mettere la polvere “sotto il tappeto”. Il secondo sistema, quello della inseminazione delle nuvole (controllo delle radiazioni solari), funziona grazie allo spargimento in atmosfera di particolari sostanze, di solito vaporizzate da aerei cisterna. Questa pratica permette di manipolare la temperatura della superficie terrestre e le condizioni meteorologiche. Nel caso del cloud seeding, tecnica utilizzata per indurre precipitazioni, vengono nebulizzati in atmosfera ioduro d’argento o ghiaccio secco (biossido di carbonio congelato). Attorno a queste molecole si condensa il vapore acqueo finché precipitano sotto forma di pioggia. Se nelle migliori intenzioni l’inseminazione delle nuvole servirebbe a portare acqua là dove si soffre la siccità, un suo uso deviato consente di scatenare bombe d’acqua ed eventi meteorologici estremi su un obiettivo prescelto. Come illustra l’ex generale della Nato e dell’Esercito Italiano Fabio Mini, il controllo meteorologico e climatico fa «parte della ricerca militare ancora attiva e tenuta segreta» (Mini 2007, Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata, in “Limes”, n. 6, p.17).
Nel 1977, quando le pratiche di modificazione meteorologica erano già in atto, venne firmato un trattato internazionale che bandiva l’uso di tecniche di modificazione terrestre per finalità militari o usi ostili. Tra i fenomeni messi al bando nella risoluzione 31/72 delle Nazioni Unite compare l’induzione di terremoti, di tsunami, di squilibri ecologici regionali; del cambiamento meteorologico (nuvole, precipitazioni, cicloni e tornado); così come è vietato il cambiamento indotto delle correnti oceaniche, l’intervento diretto sullo strato d’ozono e sulla ionosfera. L’idea e le pratiche per il controllo delle condizioni meteorologiche e climatiche sono accarezzate dalle società occidentali da centocinquant’anni. Lo spiega bene il professor James R. Fleming, che ha dedicato la sua vita alla storia della climatologia e che da tempo richiama urgentemente l’attenzione del pubblico su questa tematica che ha assunto connotazioni “patologiche”.

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Fonte: LInfAlab


Autore:  Flavio D’abramo -  Francesco Paniè


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Articolo tratto interamente da LInfAlab

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