domenica 31 luglio 2016

L’esclusione dei nativi dalle elezioni statunitensi


Articolo da Vulcano Statale

Si sa, anche in politica c’è chi può e non vuole, e chi pur volendo non può.

L’astensionismo sembra essere diventata la malattia cronica delle democrazie contemporanee, prima fra tutte quella italiana, dove in occasione delle recenti elezioni amministrative l’affluenza si è ridotta di quasi 10 punti percentuali rispetto a cinque anni fa. La via dell’astensione appare quasi una scelta obbligata per molti elettori. Lo scollamento tra rappresentanti e rappresentati, che ha alimentato il dominio del partito del non-voto, sembra in certi casi determinato da fattori esterni diversi dalla capacità degli elettori di scegliere se e come esprimere la propria volontà.

Negli Stati Uniti, in vista della sfida per la Casa Bianca tra Hilary Clinton e Donald Trump in programma il prossimo novembre, i diritti politici di una delle principali minoranze degli Stati Uniti potrebbero essere in pericolo. I nativi americani, infatti, nelle ultime tornate elettorali hanno avuto serie difficoltà a manifestare la propria volontà politica e visto concretizzarsi il rischio di una loro soppressione politica.

La Native American Rights Fund, uno studio legale senza fini di lucro che dagli anni Settanta fornisce assistenza e rappresentanza legale alle tribù indiane, sta lavorando per ampliare la partecipazione politica degli elettori appartenenti a comunità indiane. I voting cases di cui la NARF si è occupata sono cominciati nel 2006 e hanno riguardato in particolare l’Alaska e il Nord Dakota.
In Alaska la violazione dei diritti politici dei nativi è legata a una questione linguistica: dal 1975 il materiale elettorale non ė disponibile in nessuna delle lingue parlate dalla gente del posto, né in Yupik , né Inupiaq, né in Gwich’in. Insomma, i membri delle tribù devono accontentarsi dell’inglese. Bassissima affluenza ai seggi e incomprensione di ciò per cui si sta votando sono le principali conseguenze della violazione dei diritti degli indigeni. Le battaglie legali degli anni scorsi, l’ultima delle quali conclusasi nel 2014, hanno avuto un esito positivo: la Corte ha ordinato la traduzione di tutto il materiale pre-elettorale.

La legislazione del North Dakota, invece, prevede che gli elettori debbano presentare un documento di identità che attesti il loro indirizzo di residenza, informazione di cui generalmente sono sprovvisti i documenti dei membri delle comunità tribali. In passato all'elettore che non fosse in possesso dei documenti richiesti era comunque permesso di votare, a patto che fosse possibile accertarne l’identità attraverso una deposizione scritta. Tuttavia alcuni emendamenti promossi tra il 2013 e il 2015 non permettono ai nativi, per i quali risulta estremamente difficile procurarsi nuovi documenti di identità, di presentare la deposizione che consentirebbe di identificarli. Per questo, l’ultimo progetto del NARF prevede la presentazione di una mozione che possa annullare gli emendamenti che ostacolano la partecipazione degli elettori nativi alle elezioni del prossimo novembre.

È solo l’ultimo episodio che conferma l’esistenza di quei confini ben definiti che hanno tradizionalmente caratterizzato la democrazia americana. La narrazione che gli Stati Uniti fanno di sé stessi, cioè quella di un paese in cui la democrazia è il principale bene di esportazione, incontra limiti evidenti. Perché sarà pur vero che  la Costituzione americana si fonda sul principio del governo limitato – nessun potere maggiore rispetto ai poteri conferiti dal popolo- e su quello di sovranità popolare- la volontà del popolo è creatrice del governo stesso; ma si tratta pur sempre di una volontà limitata. Di certo non quella “dell’altro popolo americano”.

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Fonte: Vulcano Statale


Autore: Letizia Gianfranceschi - redazione Vulcano Statale

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Articolo tratto interamente da 
Vulcano Statale


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