domenica 7 settembre 2014

Welfare in Europa, povertà in Italia

Articolo da Pressenza

 Contro la miseria” è un saggio di Giovanni Perazzoli, che ci fa capire come il welfare europeo riduce l’ingiustizia della lotteria della nascita (c’è chi nasce figlio di ricchi, c’è chi nasce figlio di poveri, c’è chi nasce nel paese sbagliato). Il libro è stato pubblicato da Laterza (euro 12, 150 p.).

Nel 2000, prima della crisi economica, il 56 per cento dei giovani italiani viveva con i propri genitori, mentre nei paesi del Nord Europa erano solo il 10 per cento (in Francia erano il 20 per cento). Non è solo una questione di abitudini e di opportunità lavorative: in quasi tutti i paesi europei sono previsti alcuni benefit come l’alloggio gratuito e il reddito minimo garantito per i giovani che decidono di andare a vivere da soli e di partecipare ai corsi di formazione.

Ad esempio in Germania esiste un reddito minimo di 380 euro al mese per il disoccupato single, a cui va aggiunto il sussidio per pagare l’affitto (garantito anche ai lavoratori da 400 euro al mese). Ci sono poi altri sussidi in base alla grandezza della famiglia. In Irlanda esistono anche i sussidi per il gas, per il telefono e per l’elettricità. In Italia, la classe dirigente più o meno anziana, pensa solo al vecchio welfare: la cassa integrazione, gli infortuni, le pensioni e la sanità.

Comunque l’analisi dei risultati economici delle diverse nazioni europee dimostra che le più alte opportunità di lavoro sono correlate al vero welfare, “nonostante il margine di disoccupazione volontaria che produce”. Grazie alla disoccupazione volontaria retribuita i giovani hanno il tempo e la possibilità di scegliere il lavoro più adatto a loro, invece di accoppiarsi con il primo lavoro che passa, pur di racimolare un po’ di denaro. Così facendo riescono a trovare un lavoro in cui risultano più produttivi, risultando più remunerativi per sé e per gli altri. La storia del reddito minimo può spiegare il circolo vizioso della bassa produttività italiana e dei paesi del Sud Europa.

Il reddito minimo non è un reddito di cittadinanza, ma è un sussidio per chi cerca lavoro (le casalinghe e chi vive di rendita non vengono considerati). Purtroppo in Italia non riusciamo a pensare “che un diciottenne di famiglia medioborghese possa andare a vivere da solo grazie al welfare. Ma è questo che invece accade nell’altra Europa” (p. 6). Il forte bisogno di lavoro e di soldi crea dipendenza e clientelismo. “Le società autoritarie e paternalistiche difficilmente accettano l’universalismo del welfare che fa centro sull’individuo piuttosto che sulla corporazione” (ad esempio l’intermediazione dei sindacati che garantisce solo chi ha un lavoro).

In Italia esiste ancora la disoccupazione ottocentesca che impedisce di portare il pane in tavola e che umilia le famiglie con la violenza dello sfratto. In Italia non ci sono state rivoluzioni poiché in moltissimi casi ci pensano i familiari a sfamare le persone disoccupate, grazie ai risparmi accumulati durante gli anni di vacche grasse. Ma i risparmi hanno una durata troppo limitata. E bisogna considerare che è dal 1992 che l’Europa chiede all’Italia l’introduzione di un reddito minimo garantito, universale e di durata illimitata, cioè dai 18 anni fino all’ottenimento della prima o della nuova posizione lavorativa (raccomandazione 92/441 Cee, p. 6).

In definitiva l’istituzione del reddito minimo e degli assegni per l’alloggio in Europa ha dimostrato che “L’autonomia genera buone idee, e le buone idee generano benessere e libertà. Per dirla con Benedetto Croce, le civiltà fioriscono nella libertà” (p. 21).


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Fonte: Pressenza

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